Piccoli comuni, montanari ostinati e governi strabici. Riflessioni a tutto campo.

 

Tuttavia, nel rapporto fra grande e piccolo, sarebbe quanto mai opportuno che si addivenisse alla definizione di ambiti ottimali chiari e chiaramente perseguibili. Il bisogno rappresentato è spinto da una domanda: qual'è il limite oggettivo oltre il quale l'interesse del piccolo sconfina nella rappresentazione dell'individualismo? E, nelle grandi proporzioni, qual'è il limite da non superare per evitare il rischio di aggregazioni abnormi che comportano, inevitabilmente, l'esposizione ad un allontanamento dei livelli istituzionali dagli organi di rappresentanza così come dai problemi puntuali dei territori e delle popolazioni rappresentate? Ma al netto di queste valutazioni sistemiche rimane il tema dirimente di una politica che da un lato incensa le periferie, anche nelle proprie espressioni parcellizzate, dall'altra opera sistematicamente per metterle a tacere. Verrebbe da dire che lo stato centrale è chiamato a fare chiarezza. Ovvero: se si pensa che l'autonomia non sia un valore bisogna imporre le aggregazioni dall'alto, con legge dello Stato, prendendosi la responsabilità politica che ne consegue e senza addurre, come spesso accade, che i processi di composizione dei territori sono prerogativa dei territori. Perché se davvero lo si pensasse bisognerebbe essere conseguenti. E cioè garantire l'autonomia, in termini di sostegno finanziario, fino a che l'autonomia desideri rimanere tale.

Non so se interpreto bene ma credo che il problema rappresentato abbia una valenza politica ancor prima che partitica. Negli ultimi anni, sulla scena europea, si sono succeduti governi di centrodestra e centrosinistra, progressisti e conservatori, ma le enunciazioni di principio, tendenti al riconoscimento delle problematiche rappresentate, non sono state seguite da orientamenti solidi in termini di attività normativa e, men che meno, di sostegno finanziario al riequilibrio del rapporto fra territori e popolazioni. Immagino sia ragionevole asserire che la causa è, ancora una volta, "politica". Questo perché, al di là dei buoni propositi, la forza della polis, o per meglio dire del consenso, riattrae verso di sé le scelte di chi è chiamato a rappresentarne i bisogni. E allora ... da una parte si guardano i principi sacrosanti, dall'altra lo sguardo è attratto dalle necessità annidate laddove si addensano le masse. Un occhio guarda là, l'altro guarda qua, generando uno sguardo strabico che disorienta chi questi fenomeni prova a gestirli dalla periferia, con difficoltà sempre maggiori, che sono figlie di risorse tagliate, di bisogni crescenti come di adempimenti quotidiani asfittici che soffocano il potere operativo che le strutture periferiche potrebbero riversare sui territori governati.

E dunque ... mentre una parte dei montanari continuano imperterriti a vivere su territori disagiati e sempre più spesso degradati, i governi nicchiano, in attesa di uno sguardo dritto e lungo, che possa illuminare la loro azione nella gestione di problemi molto più complessi e articolati di quanto la dimensione quotidiana e del consenso non lascino intravedere. Forse è arrivato il momento di rischiare, di fare le scelte giuste nel nome di un investimento verso il futuro che, diversamente, rischia di vedersi spazzato via dallo strabismo dei governi.

Due azioni da farsi subito? (1) Ridisegnare di legge l'assetto dei territori accorpando i piccoli comuni evitando di strafare nei processi di accentramento e con l'occhio rivolto all'equilibrio necessario fra grande e piccolo. (2) Destinare da subito risorse per il ripopolamento delle aree agricole e montane così come per la realizzazione delle infrastrutture necessarie, materiali e immateriali.

Vedremo. La sfida è lanciata, l'allarme anche e il punto di convergenza degli sguardi ripristinato.