La grande crisi dei linguaggi. Specchio di un mondo

Lo dico con l'esperienza di uno che ha insegnato Storia della Musica per un po'. Se si prende un ascoltatore non educato e lo si immerge in una esperienza uditiva che parte da Beethoven e arriva a Schoenberg, attraversando i maggiori romantici ed i loro epigoni, questi avrà probabilmente la sensazione di uno scivolamento. E' la stessa sensazione del montanaro inesperto, che si arrampichi per terreni scoscesi e che cominci a sentirsi cadere. Per mantenersi in equilibrio si aggrapperà ovunque: agli arbusti secchi che non fanno presa, agli alberelli che timidamente si attaccano alle vene di terra aperte dai ghiacci nella nuda roccia, ai fasci d'erba resistenti che affondano le loro radici in profondità. Nulla riuscirà ad arrestare la caduta. Il desiderio di entrambi sarà la ricerca di un appiglio sicuro o, almeno, di un punto di approdo.

Non è facile raccontare come la musica si sia organizzata con raziocinio. La musica è, per antonomasia, l'arte dell'irrazionale, il dominio dell'indicibile, il linguaggio che ti prende allo stomaco senza che si attivino i processi superiori. Eppure ... non è così. E comunque non lo è fino in fondo. Almeno per chi la musica se la toglie dalla testa per depositarla sul pentagramma. Le atmosfere incantate, le espressioni drammatiche che si alternano a quelle distese e sognanti, i ritmi forsennati o le "pacate onde serene" sono sempre, o quasi sempre, il risultato di una sapiente costruzione dei suoni. Dal punto di vista di chi compone, organizzare i suoni significa posizionarli nel firmamento della musica, incardinandoli in un preciso sistma di gravitazione dove le masse, e le forze che ne scaturiscono, si muovono secondo parabole misurate. O meglio ... per essere più precisi va detto che è stato così per una porzione cospicua della storia e così continua ad essere per buona parte della cosiddetta pop-music. Sta di fatto che decenni di esposizione a questi stilemi costruttivi, hanno plasmato l'erecchio dell'ascolatore a immagine di una musica potentemente strutturata sui canoni della ragione. Insomma ... i linguaggi musicali si sono evoluti in questa direzione: per sperimentazioni successive e per effetto dei fallimenti e dei successi inanellatisi nell'arco della storia. Tonalità, questo è il termine entro cui si è soliti ricomprendere questo modo di intendere, scrivere e ascoltare la musica.

Tutto fino a quando non è iniziata la "grande crisi dei linguaggi"; crisi che non è stata grande da subito è evidente. Lo è diventata con l'andare del tempo. Si è prodotta per gradi, iniziando con Beethoven e allargandosi dopo Beethoven. Il fatto è che gli spazi espressivi disegnati dalla tonalità hanno iniziato ad apparire angusti in epoca romantica. L'ansia di andare oltre la ragione, per rappresentare il cuore che è nell'uomo, ha progressivamente corroso le strutture linguistiche consolidate fino a farle esplodere del tutto, immergendole nelle propagini più estreme del romanticismo, nello straniamentro totale dell'espressionismo di Schoenberg. Se poi lanciassimo lo sguardo oltre Schoenberg, il ragionamento si farebbe ancora più complesso. Fermiamoci qui per ora: al travalicare fra la musica organizzata secondo i rigidi dogmi della tonalità e quella dimensionata o meglio, adimensionata, sul terreno della ricerca libera di nuove forme di espressione. Si capisce già, da questo ragionamento, che la crisi non è necessariamente una crisi. Anzi, nella fattispecie è esattamente quello che si è detto, vale a dire l'apertura verso orizzonti liberi.

Quello che è interessante è che la "crisi" dei linguaggi, che sia vera o utilizzata come semplice metafora delle modificazioni cui i linguaggi hanno dovuto soggiacere, si caratterizza come lo specchio fedele della crisi e delle modificazioni della società che l'ha vista evolvere. Fra la fine del settecento e la prima metà del novecento una intera corrente di pensiero si è allontanata, via via sempre di più, dagli ottimismi della ragione, e le correnti di pensiero, si sa, hanno la capacità di contaminare agni ambito della conoscenza. Così la pittura scopre nuove linee, destruttura piano piano la forma, ne fa una non forma. La medicina, con Freud, scopre e mette a nudo il lato bieco della coscienza. La rappresenta, nella psicanalisi, come la componente più autentica dell'interiorità. I dogmi della fisica entrano in crisi e con loro vacillano le tradizionali categorie entro cui si organizza la conoscenza delle cose. Il tempo e lo spazio diventano relativi, si disarticolano. L'arte, che ambisce ad essere autentica nella sua rappresentazione del mondo, non può che appellarsi agli strumenti dell'irrazionale, a volte pianificati con una razionalità gelida (è il caso, per certi versi, della dodecafonia). La musica, svincolata dalle sue certezze costruttive, ma si vorrebbe dire storico-filosofiche, ci consegna a quel senso di precarietà, di scivolamento, di estraneità. Ci scardina dal mondo ma ci riconsegna alla sostanza più autentica di noi: quella che pesca nel profondo.