Parole al laccio

La cronaca di questi giorni narra ancora, purtroppo, di donne violentate, percosse, uccise da uomini fragili, divisi, incapaci di sopportare il peso delle loro sconfitte. E' come se la vita sentimentale, oltraggiata dalle loro immaturità, gli riverberasse addosso l'immagine distorta di sé: la parodia goffa del maschio dominante. La catena pare non interrompersi, le efferatezze si moltiplicano, l'amore che si rivescia nel possesso non cessa di mietere vittime.

Viene fatto di domandarsi perché: dove origina tutta quell'ansia di vendetta. Il Parlamento discute, o forse vorrebbe discutere, i movimenti a tutela delle donne alzano giustamente i loro vessilli, i media strombazzano in continuazione convinti come sono che l'informazione serva ad arginare il problema. Forse serve. O forse no. Chissà. La percezione è che spesso si tratta di parole in libertà, animate dai migliori propositi certo, ma inefficaci perché incapaci di incidere a fondo sul tessuto socio-culturale.

Il problema nasce nelle strade, nelle famiglie, nei clan che codificano ed ergono a regola un concetto deviato dei rapporti con il mondo. In quelle sacche di comunità il problema si moltiplica, si fa effetto domino, non trova un argine nelle istituzioni, per incapacità, per connivenza, a volte per impotenza. Fatto sta che c'è una parte di mondo che legge la propria relazione con gli altri in termini non di riconoscimento ma di possesso. E quando l'oggetto del possesso, lo strumento di soddisfazione dei bisogni e di attenuazione delle frustrazioni si sottrae al possesso scatta l'idea della distruzione, del giocattolo che ... "lo sfascio se non può essere mio".

In mancanza di un apparato che previene e che argina, viene il dubbio che tutto questo parlare possa rivelarsi addirittura controproducente, che funga da cassa di risonanza, che spinga all'emulazione decine e decine di maschi offuscati dalla nebbia dell'incultura che confonde amore e distruzione. In questi giorni la mia attenzione è stata attratta dal testo di due note canzoni pop di altrettanti cantautori che vanno per la maggiore: "Cinque Giorni" di Zarrillo e "Fammi andar via" di Baglioni. Entrambe narrano di due storie finite.  Un frammento della prima recita: "Amore mio come farò a rassegnarmi a vivere, e proprio io che ti amo ti sto implorando aiutami a distruggerti". La seconda contiene invece queste parole: "Agli uomini usurai diglielo che fra noi non è finita, che ti ho fregato tutto, che sei tutto, che sei roba mia".

Non è per mettere le parole al laccio: quelle parole danno voce a zone profonde ma la loro elaborazione in termini positivi richiede una cultura e una maturità che non sono patrimonio di tutti. Il timore è che nella testa di chi non è attrezzato possano trasformarsi, come tante parole in libertà, in una pericolosa "licenza di uccidere".

Solo questo. Forse un po' di silenzio cosparso di azione, in un modo che rimane spesso codardo, inerte, sospeso, potrebbe aiutarci a riprendere il passo con la civiltà, prima di restituire il fiato alle trombe.