Nel ghetto dell'identità

L'istinto di appartenenza è fortissimo nell'uomo. Siamo esseri sociali e il bisogno di legare è una questione di sopravvivenza. Le zone ancestrali della mente hanno introiettato in noi l'idea che la vita in simbiosi ci mette al riparo dai rischi, dalle trappole dell'esistenza, dalla fame dei predatori. E così appartenere significa resistere, garantirsi una vita riparata, assicurarsi una discendenza florida e consegnare noi stessi ad una sorta di illusoria immortalità. Identità è il termine depurato delle croste di preistoria con cui siamo soliti indicare il bisogno di appartenenza. Non esiste individualità che prescinda dal gruppo, e fuori dal clan non c'è esistenza che possa dirsi compiutamente tale. Queste le dinamiche che agiscono, in modo potentissimo, nella connessione fra singolo e collettività.

 

L'identità ha due facce però. La prima, matura e culturalmente evoluta,  agisce criticamente sul contesto apportandovi il contributo originale del singolo. La seconda, arcaica e ottusa, è portata invece a sposare acriticamente il modello di riferimento pur di garantirsi la "sopravvivenza". E' mia opinione, modestissima del resto, che questa seconda modalità di aderenza identitaria abbia trovato diffusione molto più larga; nel nostro paese e non solo.

Non si può negare, d'altronde, che i fenomeni di sradicamento si sono moltiplicati negli ultimi anni. Rapidità negli spostamenti da un capo all'altro del globo, incremento dei fenomeni di immigrazione/emigrazione, massima veicolarità dei sistemi di comunicazione di massa, dalla tv alla telefonia  e fino ad arrivare ad internet, sono tutti elementi che se da un lato ci avvicinano al mondo, dall'altro, ci allontanano dal campanile. Insomma, riconoscere i propri riferimenti in un contesto così ampio è diventato molto difficile e il farlo richiede una attrezzatura ingente e uno sforzo apprezzabile. Dopo di che... se si riesce nell'impresa, si scopre il senso pieno del proprio esistere dentro una appartenenza larga, diversamente si è sopraffatti dallo smarrimento e ci si aggrappa al primo, isolato spuntone di roccia che affiora nell'oceano sterminato della globalità.

Tuttavia l'aggrapparsi così implica una chiusura forte dentro al proprio guscio. Basta guardarsi attorno con un po' di spirito di osservazione per capire in quante e in quali forme, a volte decisamente deviate, la riappropriazione del "nostro" si manifesta. Ci sono tifoserie al limite della barbarie, veri e propri manipoli organizzati che prendono lo sport a pretesto per rompere, incendiare, picchiare e scompaginare le fazioni avverse, uccidere. Ci sono partiti politici che costruiscono la loro fortuna elettorale innalzando il vessillo del rifiuto dell'altro. Ci sono persone che costruiscono steccati invalicabili fra i "propri" ambiti familiari e il resto del mondo come a segnare la separatezza dei prorpi territori da ogni relazione dinamica con il "fuori". Ci sono religioni che si ergono a depositarie di ogni verita, che rifiutano l'ascolto come se fosse indice di debolezza, contaminazione della purezza delle proprie certezze. Ci sono comunità comunali, poco più che condomini per dimensione, che si asserragliano entro i limiti dei propri confini negando l'evidenza, la necessità di un ripensamento di se stesse alla luce di un rapporto più organico con i territori che le circondano.

E' in quesi ambiti asfittici che l'identità diventa un ghetto, un luogo che alimenta le certezze spicciole derivanti da una lettura "di pancia" dei fenomeni e dove si è chiamati al rispetto acritico di codici ancestrali. E' lì dentro che gli "adepti", corroborati dagli pseudo-dogmi che si radicano nelle comunità arcaiche e chiusi nel recinto dei loro confini identitari, manifestano il legittimato rifiuto dell'altro da sé, del diverso.

Come se ne esce? Combattendo il pregiudizio. Investendo in cultura. Alimentando atteggiamenti aperti, rispettosi delle radici ma scrupolosamente non timorosi della contaminazione. L'apertura al nuovo, al diverso, è sinonimo di maturità. A volte bisogna avere il coraggio di chiudere un capitolo per aprirene uno successivo, che non nega la dignità del precedente ma che vive di una vita propria. D'altronde, come ha argutamente scritto Saramago nella sua "Caverna", "perché il cielo si apra bisogna che una porta si chiuda".