Verso l'oblio

Caro babbo, non è da molto che te ne sei andato. Il lutto non è un evento puntuale nel tempo. E' una losanga nera che si spalma nei mesi e negli anni. Ogni tanto dimentico ... ma poi ripenso, vedo le persone che hanno incrociato il tuo cammino, intravedo le andature, ritrovo gli oggetti. In quei momenti, quando le emozioni salgono con prepotenza fino agli occhi, i pensieri si aggrumano in una massa livida. A volte provo a districarli. E li deposito qui.

 

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E' un freddo pomeriggio d'autunno e mi trovo nel piccolo camposanto del paese. Sono raggomitolato nel mio giubbotto. Con pochi intimi amici attendo il ritorno delle ceneri. Il disco del sole cala rapido sulla linea dell'orizzonte e gli ultimi, tiepidi raggi che si distaccano da lui, sferrano un morso che addenta il capo irsuto delle montagne.

Un'auto si ferma davanti al cancello. Un uomo esce. E' coperto da un lungo cappotto scuro. Dalla macchina estrae una scatola. Varca il cancello e si dirige verso di me. Non lo conosco ma lui ha capito chi sono. Non so da cosa, forse gli occhi, la mestizia, la sospensione, l'attesa. Depone con cura la scatola a terra e ne estrae una piccola urna scura. Il suo sguardo sprofonda nel mio. Fruga oltre lo sguardo a cercare il luogo in cui stendere una carezza.

Con gli occhi negli occhi tendo le braccia e l'urna si ferma sul giaciglio delle mie mani. Sembra impossibile che l'ingombro dei corpi si sia dissolto così. Eppure mio padre è lì. Pochi grammi di sabbia lattiginosa esposta ai capricci del vento. In quella polvere bianca ... il concentrato dell'esistenza. Un soffio di fiamma e ritorni bambino. Succube delle sue debolezze, mio padre si adagia nel palmo del figlio. Lo guardo, lo accompagno, lo depongo. Un muro si chiude. Fuori la vita.

 

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Stasera mi sono seduto qui davanti e ho provato uno strano senso di colpa. Ho capito di cosa mi incriminavo: di non aver mai insegnato a mio padre come si usa la chat. Già. Perché nel posto lontano dove è volato il mese scorso, forse, gliela lasciano usare. E se è così ... e se gli avessi insegnato ora potremmo parlare da qui. Una voce senza voce certo. Ma pur sempre una voce. Questo ho pensato per un attimo prima di tornare alla realtà. Strane alchimie della mente che si protegge dal dolore frapponendo distanze fra se stessa e la mancanza.

 

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L'appendice di una serie infinita di adempimenti coincide con il mio affacciarmi agli uffici della motorizzazione. L'auto era intestata a lui, a mio padre. Il libretto scorre dalle mie mani fino a quelle dell'impiegato. L'apposizione di un bollino segna il passaggio di proprietà. Ripiego con cura le carte e le metto in tasca prima di uscire. Fuori tira vento, un vento cui espongo tutta la mia persona come se lui, il vento, avesse la capacità di riempire il vuoto che si è spalancato in me. Un cappio strettissimo mi attanaglia la gola. Penso al viatico cinico con cui il mondo cancella dal mondo chi non c'è più. Non mi arrendo all'oblio. Resisto. Spalanco le orecchie e ascolto. Attorno a me il vento ... che non riempie il vuoto. Lo agita.

 

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Un signore anziano si affaccia. E' accompagnato. Fuori non fa freddo ma lui è coperto da un largo cappuccio che gli nasconde il volto. Abita a due passi da lì ma non ricorda dove. Uno degli astanti si offre di accompagnarlo. Lui non vuole. E' diffidente. Negli occhi scorgo uno smarrimento, una assenza diafana. Ripenso a mio padre, ai vuoti di memoria, alla forza che si rovescia nel contrario. Rivedo lo sguardo, in bilico fra tristezza e rassegnazione. Lascio spazio al ricordo e il presente sprofonda nel passato. Gli occhi fissano il vuoto a fare vuoto intorno. Il rumore secco di una porta aperta mi scuote. E' mezzogiorno e l'uomo se ne va. Ciao babbo.

 

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E' la festa del babbo. La prima senza mio padre.Silenzio intorno. Nella testa una musica. Il fioraio mi accoglie. "Voglio una rosa". La più bella di tutte.Lui amava le rose. Velluto fra le dita. Fuoco negli occhi. Scendo le scale. Percorro i viali.Di fronte all'urna depongo la rosa. Accosto la mano alla pietra gelida. La musica cresce, si amplifica, squassa. Lento, un diminuendo la spegne. Silenzio in testa.

 

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Nelle stanze polverose, che sono state tempio di vita di chi non c'è più, a volte ti imbatti in oggetti inosservati. Quegli oggetti si fanno ricordi che trascolorano rapidi in emozioni potenti. E così stamattina, rovistando fra le cianfrusaglie sparse del garage dove mio padre trascorreva intere giornate, l'occhio è volato su un chiodo conficcato a forza in una tavola grezza. Lì è appesa una chiave, quella del maggiolino verde che per anni e anni lo ha accompagnato, servo umile di tante scorribande. A segnare il senso di quella chiave c'è un pezzetto di cartone, solidamente ancorato al chiodo, che reca impresse tre parole scritte in uno stampatello incerto: "mio vecchio folcsvaghen". La mente corre alla malattia, all'impossibilità di guidare, alla mobilità negata, al maggiolino venduto. L'aggettivo, "mio", delinea il profilo di un distacco senza resa. Tutto qua ... un chiodo, una chiave, un cartone. Rimasugli di vita cui ti aggrappi per vivere.

 

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C'è un angolo riposto della vita dove la vita ti prende a martellate. Accade quando sei nudo: nell'infanzia, durante l'adolescenza, nei passaggi stretti dell'esistenza, nelle pieghe di una relazione impari. Chissà. Sta di fatto che il segno delle percosse te lo porti dietro per sempre.

Le cicatrici sono carne viva però. Prudono, trafiggono, a volte sanguinano. E il dolore che affiora ti rende insofferente, fastidioso, desideroso di pungere. Alle volte mio padre era così. Nel perimetro circoscritto delle pareti domestiche c'erano momenti in cui riusciva ad essere impossibile. Credo che a un certo punto abbia avuto il presentimento che il nastro stesse per srotolarsi del tutto. E' allora che ha cominciato a smaniare per riappacificarsi col mondo che gli stava attorno: nei dispiaceri espressi, negli abbracci cercati, nel regalo per mia madre, l'ultimo, il più bello, quello che ha inseguito fino alla fine senza riuscire a trovarlo. Forse la ricerca del perdono tendeva la mano al desiderio di comprensione: il bisogno di stracciare la stoffa che nascondeva le cicatrici, la smania di mostrarle per farne la giustificazione dei propri difetti.

Ventisei ottobre, il suo compleanno. Il primo senza. Le ricorrenze sono come il silenzio. Sbiadiscono il chiasso della quotidianità e ti disegnano attorno un alone irreale. E' lì, fra quelle nebbie, che il filo delle emozioni spezzate si ricostituisce. Le riannodo. E sulla cresta del fiocco provo a scrivere "Auguri".

 

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Le rondini. Vanno, vengono, a volte restano. Sfrecciano come saette. Incrociano voli in forma di arabesco. Si dice che arrivino da lontano. Chissà se si portano dentro qualcosa di sconosciuto, di non detto, di dimenticato.

In questo inizio d'estate, mezzo caldo mezzo freddo, una di loro si è accasata da me. Apro la rimessa al mattino e lei esce. Tutto il giorno va e viene, a volte resta. La sera, prima che la porta si chiuda ancora, rientra di nuovo e si addormenta lì.

Quella porta, quella rimessa. Mio padre stava sempre lì, fra la rimessa e la porta, la porta e la rimessa. Entrava e usciva di continuo. Andava, veniva, a volte restava. Sai quando le emozioni ti salgono in gola? Un flash, un lampo di luce, una sequenza. Dalla cenere al corpicino pennuto. Stessa cadenza, stessa leggerezza.

Maledetta la testa. Le inventa di tutte per sanare lo squarcio fra chi resta e chi va.

 

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Ascoltami vecchia carretta,

lo so che codesto fardello che ti porti in groppa è l'ultima cosa che ti resta. Lo so che quegli stecchi storti te li aveva messi in dosso lui. Lo faceva ogni volta. Ti appesantiva la schiena e ti lasciava lì, carica di ingombri, fino a che l’aurora avesse svegliato il giorno di poi. Allora tornava, ti spingeva con cura fino a casa e ti liberava.

Sono due anni che ti tieni in dosso codesta fatica. Lo so che gli volevi bene, che ancora lo aspetti e che tendi le orecchie aspettando il suono del suo stanco strisciare di piedi. Però ... vedi vecchia carretta lui non tornerà. Lo avevi capito vero? Forse è per questo che quell’ammasso di legni te lo sei tenuto stretto, legato fra la schiena e il corpo, come ad avvicinarlo al cuore. Sì lo so che sugli oggetti che si lasciano si deposita un pulviscolo strano, una patina impalpabile dove si annidano gli sguardi, le parole, le carezze, le emozioni. E so che tirarti via di dosso codesti stecchi sarebbe come strappartelo il cuore. E tuttavia devo farlo.

Allora sentimi! Ora mi avvicinerò, impugnerò codesti lunghi manici che lui ti aveva attaccato addosso per evitare di alzarti, per alleviare la sua fatica. Poi ti spingerò per strada. Il rumore di codeste rotelline sveglierà il paese intero. Qualcuno sussulterà. E penserà che sia tornato. Tu però … no vecchia carretta. Tu lo sai che è un altro che ti spinge vero? Quando tutto sembra andare storto, c’è sempre uno che lo fa.

Arriveremo a casa, certo. E lì mi metterò a sfilarli codesti legni. Uno dopo l’altro. Lo farò perché è quello che avrebbe fatto lui. Il giorno dopo. Quando non lo hai visto tornare. E’ l’unico modo per farlo vivere credimi. E raggelare il tempo, alla lunga, raggelerebbe anche te. Bisogna fare e rifare. Ed è in quel fare che un  pezzetto di lui, di sicuro, c’è.

Andiamo vecchia carretta. Rimettiti a cigolare. Ma ricorda che lui, lui non tornerà.

Ah … vecchia carretta dimenticavo. Ora che sei libera, che ti senti lieve, e dacché il portar pesi è il tuo mestiere, fammi una cortesia: porta via un po’ del peso che mi sento addosso. Caricati di questi rottami che le vite interrotte ti lasciano sul cuore. Portali via. E rendi leggero anche me.

 

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Era la mattina del sedici novembre. Stavo guidando. Scendevo verso Pistoia e mio padre era seduto di fianco. D'un tratto mi disse: "Quando arriviamo devo andare in banca. Mi servono cinque o seimila euro. Vado a prelevarli". Ultimamente ne faceva di ragionamenti strampalati e io, un po' stupito un po' infastidito gli risposi secco: "Ma cosa stai dicendo! Più di mille non te li danno". Se la legò al dito e quando fummo a destinazione scese dall'auto. Con tutta la forza che aveva mi chiuse in faccia lo sportello e mi disse: "Ci vediamo qui fra due ore. Torna a riprendermi". Se ne andò incespicando, cercando a fatica l'equilibrio, come ormai faceva da tempo. Quando tornò non disse nulla ma in compenso mi tenne il broncio per tutto il giorno.

Qualche giorno più tardi seppi da mia madre che le aveva regalato un paio di orecchini. Mio padre non era incline alle grandi manifestazioni di affetto. Oltretutto non c'erano né compleanni né anniversari in vista e di lì a poco sarebbe stato Natale. E allora perché. Perché un regalo fuori stagione.

Undici giorni dopo scese l'ultimo gradino. E quando mi resi conto che non c'era più lo cercai con affanno. Negli oggetti che aveva lasciato. Rovistando nel suo portafogli trovai la ricevuta degli orecchini. Trecentoquindici euro. Tutto quello che aveva. Porca miseria! Mi sarei preso a ceffoni. Presi la ricevuta e la buttai in un cassetto. Fra le mie camicie.

Oggi per caso l'ho ritrovata. Inghiottito dalle emozioni ho rivisto tutto il film. Lo sbacchione alla porta, il tentativo di andare in banca, le forze che non lo assistono, il primo gioielliere, l'impotenza deii pochi soldi rimastigli in tasca. Pochi. Troppo pochi per dire tutto.

Una settimana dopo che se n'era andato una signora del paese mi avvicinò e mi disse:"Sai cosa mi aveva detto tuo padre qualche giorno fa?". La guardai incuriosito. "Mi sa che per un po' non ci vedremo. Ti saluto carissima. Io devo partire". Si voltò all'improvviso e se ne andò. Come lui doveva aver fatto con lei.

 

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Mio padre se n'era andato con un rammarico nel cuore, quello di non essere mai diventato nonno. Un mese dopo la sua partenza decisi di candidarmi a Sindaco. Ricordo che lo diceva spesso: "Un Sindaco, in fondo, non è altri che un buon padre di famiglia". Nella scelta, forse, mi spinse più di altro la seduzione di restituirgli, anche in una forma inusitata, quello che non gli avevo dato.

Campagna per le primarie. Tre anni dopo. Un comune nuovo, persone mezzo sconosciute, territori da capire e da imparare. Mio padre non è ancora nonno. Ma girando per le strade dei borghi in cui aveva lavorato scopro che la gente mi conosce. E mi conosce attraverso il ricordo di lui. Le primarie le ho vinte. Le ho stravinte. Seduto in macchina, solo con me stesso, un'altra seduzione mi assale. Forse qualcuno, da lassù, mi sta accompagnando per questo cammino.

 

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