Con gli occhi nel tramonto

Articolo pubblicato su MenteCritica

 

Ci sono tramonti che spezzano il fiato, che trascinano il sole sotto il profilo dell'ultima montagna o che lo spengono in mare in un tripudio di rossi. Se in quei tramonti ci punti gli occhi non hai il senso della fine. Sai che il sole ritornerà il giorno dopo. E con lui nuovi tramonti entreranno nella corrente emotiva delle tue sensazioni. La natura considera il crepuscolo come un viatico per la luce: una tappa obbligata affinché dalla vita si generi nuova vita. Non è così nel mondo degli uomini, almeno non nella società occidentale cosiddetta "evoluta".

 

Da noi il crepuscolo è "stagione" da dimenticare, da relegare in un angolino serrato nella più cupa penombra, dove l'occhio non sia chiamato a soffermarsi. Neanche per sbaglio. Entri nel crepuscolo quando invecchi, quando smetti di produrre. E se non produci sei un peso sul collo del mondo, sei un'entità che divora energia senza restituire nulla, sei un parassita da gestire. Eppure per arrivare fin lì, per vedere la tua ombra che si allunga, devi attraversare vigile tutto l'arco del giorno. In quel lasso di tempo osservi, conosci, impari, soffri, sorridi, piangi. Vivi insomma, e vivendo lasci che le cose sedimentino dentro di te, finché l'imbrunire si affaccia e il sedimento si fa distillato. E' la ricchezza del tramonto, una cosa che vorresti restituire, come fosse un fertilizzante su cui far germogliare il seme di una umanità rigenerata. Allora raccogli con pazienza ogni particella di quel limo, materia preziosa strappata al letto del fiume che attraversa la vita, te ne riempi le mani e assumi il fare di chi voglia spargelo ai quattro venti. In quella posizione rimani come paralizzato però: ti accorgi che il mondo il tuo distillato non lo vuole. Anzi, si barrica dietro il proprio anelito al mattino e ti leva contro un vento che inchioda. Insomma ... se non sei giovane, forte, bello e produttivo le tue ricchezze non servono a nessuno.

Dopodiché, se il crepuscolo lascia almeno che si intraveda la sagoma di te, il passaggio temporale che conduce alla notte ti sprofonda nella più impenetrabile oscurità. Già, perché se un minuscolo raggio di luce strappasse il buio di quella oscurità, il mondo avrebbe da misurarsi con il vero, col senso del suo andare e venire, esserci e non esserci, morire per vivere e vivere per morire. Ma la verità spaventa, perché ti spoglia di ogni corazza, ti lascia nudo di fronte alle tue debolezze. E' più semplice allontanare, rimuovere, stendere veli su quanto confligge con l'ideale di una società sempre giovane, efficiente, eternamente immersa nelle luccicanze della vita. E allora ... ecco che gli ospizi segnano un confine invalicabile fra la gioventù e la vecchiaia, fra il giorno e la notte, fra la saggezza presunta e la verità ostentata. Gli ospedali si staccano dalla città e gli obitori si allontanano dagli ospedali. A connetterli, stretti cunicoli sotterranei che nascondono, rimuovono, ghettizzano. La medicina, chiamata ad amministrare la giustizia del trapasso, si barrica dietro l'appilcazione dei suoi rigidi protocolli, trasformando, spesso, la gestione del fine vita in una asettica operazione di allontanamento del "rifiuto". Ho visto, nei corridoi del pronto soccorso, gente incapace di parlare abbandonata a se stessa, intrisa nei propri escrementi, urlante suoni disarticolati a rivendicare, con l'ultimo fiato, il senso della propria dignità.

Eppure è proprio dal rapporto che una comunità instaura con le sue radici, con il tramonto di se stessa che si misura il suo tasso di civiltà. Una società che sia degna di questo nome mette in scena senza vergogna il crepuscolo della vita. La terza età diventa un valore, un cumulo di esperienze da consegnare ai giovani affinché questi vi costruiscano sopra le proprie esperienze. Una politica saggia si fa carico di promuovere la continua integrazione fra vecchio e nuovo, la convivenza fra giovani e anziani, l'entusiasmo per il futuro e per l'incoscienza che è motore della storia, nel rispetto di quello che è stato. Un mondo che si dice "avanzato" non ti abbandona al tuo destino quando ti approssimi alla porta che si apre oltre la vita. Verso quel passaggio ti accompagna per mano, con la cura e la dolcezza con cui si accompagna un figlio che sta muovendo i suoi primi passi. Nel cammino per arrivare fin lì, da che sei uomo finché non chiudi gli occhi per sempre, custodisce come un oracolo la tua dignità e la protegge ostinatamente da ogni indebita incursione. Poi, oltre la porta dell'infinito, non ti abbandona a te stesso, ma alimenta il tuo legame con il rigenerarsi della vita.

Viene da chiudere con una immagine che vuole essere anche un auspicio: quella dei grandi cimiteri americani, concepiti come giardini e, a differenza dei nostri, incastonati nel cuore delle città. In quei giardini, disseminati di croci spartane, genitori e bambini passeggiano sereni accompagnati dai loro cani. In questa lettura simbolica c'è tutto il senso di quanto la realtà dovrebbe essere. Chiudi gli occhi... e una pellicola ingiallita dal tempo proietta sullo schermo quell'idillio pacato:  vita e morte tornano a convivere, aurora e tramonto diventano componenti del giorno, inizio e fine ritrovano il senso del caminare affiancati. Mano nella mano.