Le mani sporche

L'ascesa di Renzi e il suo tentativo di modificare le regole elettorali così come alcune archiitravi dell'architettura istituzionale italiana, sono fatti di stringente attualità. Eppure sono vecchi come il mondo e ripropongono il tema di quanto sia lecito sporcarsi le mani per cogliere un obiettivo di interesse più generale. E' un dato che per più e più motivi questo paese è sprofondato in una melma immonda fatta di malaffare, di regole ferree mai applicate, di privilegi ingiustificati e ingiustificabili, di politici corrotti che nei decenni hanno disegnato un sistema che alimenta la propria inadeguatezza, l'inettitudine, l'incapacità di rispondere con efficacia ai problemi che emergono dal paese con drammatica urgenza. In questo scenario l'uscita dal pantano diventa condizione strategica di sopravvivenza. Già, ma come? Come smontare questo intricatissimo mosaico se ogni singola tessera dà l'impressione di essere rigidamente inchiodata alla propria posizione, se non manifesta quel grado di libertà che potrebbe consentirle di sfilarsi, mandando in frantumi il resto del quadro. Inchodare i politici alle proprie responsabilità è una delle strade. Certo non basta, ma è l'ABC. E visto che da qualche parte bisognerà cominciare tanto vale rifarsi da qui. Sono decenni che la politica si trincera dietro un alibi di ferro: il "non me lo hanno lasciato fare". Il famigerato "Porcellum", cioè il sistema elettorale con cui si vota attualmente ripropone, negli emicicli di camera e senato, la divisione salomonica fra gli aspiranti al governo, il perfetto equilibrio fra destra e sinistra. La conseguenza è automatica, ovverosia il ricorso sistematico a maggioranze eterogenee e improbabili che rivendicano la bontà delle proprie idee, che pretendono di non cedere alle ragioni degli altri, e che nulla aggiungono e nulla tolgono a quanto già c'è. Di qui la necessità di approvare una legge elettorale capace di disegnare maggioranze stabili e in grado di assumersi la responsabilità di governo per un lasso di tempo sufficientemente lungo.

 

In questo disegno strategico si colloca il tentativo di Renzi, un tentativo che, stante l'attuale frammentazione del quadropolitico, impone compromessi gravosi con il partito di Silvio Berlusconi, persona di dubbia moralità che tuttavia ha saputo cavalcare abilmente la scena politica degli ultimi venti anni. E dunque il dubbio, vecchio come la storia, è: rifiutare il confronto dietro la motivazione che non si tratta con persone ambigue o rischiare una riabilitazione del personaggio portando a casa un risultato corposo nella logica della governabilità? Il dibattito impazza e non solo negli ambienti della sinistra radicale. Vaste aree dell'opinione pubblica sono divise fra chi avalla l'operazione nel nome di un pragmatismo politico stringente, e chi la condanna, convinto che con un pregiudicato non ci si misura e basta.

E' mia opinione che i problemi giudiziari di Berlusconi sono aspetto che attiene all'immagine e alla credibilità del partito che lui rappresenta e che l'obiettivo in campo è talmente importante da giustificare la trattativa. Va detto che fra Renzi e Berlusconi non corre buon sangue e che fra i due il primo esce notevolmente rafforzato in termini di immagine. Dopotutto il cavaliere ha dovuto piegarsi a gestire l'incontro nella sede del PD, cosa che fino ad un anno fa, immagino, non avrebbe neanche preso lontanamente in considerazione. Oltretutto il quadro è complicato dalla presenza in parlamento di una forza numericamente consistente, ovverosia il M5S, che rifiuta ostinatamente il dialogo con tutti, nella logica di una supremazia morale che lo candiderebbe ad unico interlocutore credibile dei cittadini.

Stante il contesto delineato, la mente corre ad un episodio della storia di tanti anni fa, e cioè al cammino politico compiuto da Abramo Lincoln nella battaglia che condusse per l'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti d'America di metà ottocento. Sì, lo so, i puristi storceranno il naso, argomenteranno che quell'obiettivo era infinitamente più alto, talmente alto, forse, da giustificare i pesanti compromessi che il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti fu costretto a sopportare. Eppure, fatte le debite proporzioni, i termini generali della questione non si spostano di un millimetro perché il tema è e rimane quello della democrazia che ti condanna a rimanere immobile se pretendi di mettere in scena i tuoi soli ideali e che invece ti offre una possibilità di cambiamento se sai leggere e controbilanciare il sistema delle forze che governano la società, ivi comprese quelle più basse e spregiudicate con cui, spesso, devi scendere a patti. Lincoln si trovò stretto fra il benessere della propria famiglia e i suoi alti ideali di libertà, fra la necessità di mandare avanti la guerra di secessione, assicurandosi la possibilità di portare in approvazione il tredicesimo emendamento, o rinunciarvi, mettendo fine ad un conflitto che aveva già fatto decine di migliaia di morti e che molti alti ne avrebbe provocati nel periodo a seguire. Scelse coerentemente, e non senza personali sofferenze, la strada dei suoi ideali. La guerrà andò avanti, la sua famiglia soffrì, lui stesso combattè una guerra senza quartiere con le  inguaribili depressioni di cui soffriva. Alla fine conseguì il risultato. Ma a prezzo di quali distruzioni? Anche la democrazia, forse, segue le regole più elementari della vita: per creare qualcosa bisogna che qualcosa vada rotto e il cambiamento si alimenta di quelle fratture. Al netto delle sofferenze personali che patì, Lincoln avrebbe potuto passare alla storia come il responsabile di centinaia di migliaia di vittime innocenti. Eppure non fu così: non furono gli storici a riconoscergli tutta l'altezza con cui lo si ricorda, fu il popolo. Quando il Presidente fu ucciso, nell'aprile del 1865, montò dal paese una emozione immensa. Il suo corpo fu "allestito" su un vagone ferroviario e fatto girare attraverso gli Stati dell'Unione per consentire a tutti di rendergli omaggio. Insomma, se si ha a cuore il valore della democrazia, ci sono momenti nella storia in cui bisogna tuffarsi nella melma.

Per tornare a noi, all'ipotesi di riforma della legge elettorale e alla contaminazione necessaria per portarla a casa, ci viene indicata un'altra strada: quella di affidarsi completamente a chi dice di avere tutte le soluzioni. Quella di mettersi completamente nelle mani divino demiurgo Beppe Grillo che promette un mondo idilliaco. La condizione, però, è quella di un consenso plebiscitario che riduca praticamente al nulla le voci dissonanti. A questo convincimento si unisce quello secondo cui "tutto sarebbe da rifare". Si attaccano i vertici delle istituzioni e si invoca l'azzeramento del mondo. Ora ... forse qualcuno dovrebbe spiegare al Sig. Grillo che l'uomo, nella sua essenza, non è che si sia sempre dimostrato questo capolavoro che si vuole lasciar credere e che il sistema delle istituzioni è fatto di pesi, di contrappesi e di bilancini proprio per evitare che qualcuno si faccia venire in testa delle strane idee. Oltretutto, va anche adeguatamente sottolineato che le parole di Grillo delineano con chiarezza un copione che più volte abbiamo visto applicato; un copione che quando ha trovato seguito ha immancabilmento prodotto le pagine più nere della storia.

Col senno delle parole dette preferisco ribadire il mio apprezzamento all'indirizzo di chi, attraversando le stagioni difficili con il proposito di cambiarle, diffida delle soluzioni facili e si muove invece nel recinto stretto delimitato dalle regole. E' proprio lì, negli spazi angusti della democrazia, che devi misurarti con le storture del mondo. Alle volte devi chiudere il naso e le orecchie, indossare le calosce, lo scafandro, i guanti e calarti nella melma. Fino al collo e oltre.