Umanità fragili e bisogno di comunità

Non sono più i tempi del riconoscimento nella generalità delle cose. Una volta era naturale cercare risposte comuni, a volte anche di tipo rituale, alle domande di ogni genere, da quelle afferenti al sistema dei bisogni elementari, fino a quelle cariche di contenuto ancestrale. L'individuo, nella sua singolartità, era intrinsecamente fragile e bisognoso di approdi collettivi. La vita politica, quella sindacale, la religione, erano tutte forme di collettivizzazione in grado di operare linearmente un processo di traslazione dall'unicità al tutto.

Se facciamo un balzo indietro di qualche secolo scopriamo, scritte nelle regole statutarie degli antichi Comuni, norme e regole la cui ratio sfugge totalmente alla nostra comprensione. Una su tutte, l'obbligo di amministrare il proprio comune, a turno, da parte di ogni cittadino, a consolidare l'idea che la sopravvivenza di ognuno si lega a quella di tutti e che occuparsi di tutti corrisponde ad un preciso obbligo di ognuno. E' come se l'esistenza del singolo non potesse manifestarsi a prescindere dall'esistenza di tutti. Di qui l'obbligo, a tutela della comunità, ma nella comunità anche del singolo, di occuparsi della dimensione collettiva.

Si tratta di un modello che è rimasto in piedi per millenni pressoché immutato. Certo, stanti le forme del momento attraversato, ma dentro un complesso di strutture economico sociali, spesso trasformate in diritto, con l'occhio perennemente rivolto al pepetuarsi delle comunità. Poi nella storia qualcosa si rompe e quel modello, intrinsecamente solidaristico ma anche carico di insedie, entra più o meno improvvisamente in crisi. E le insidie, in quella crisi e di quella crisi, sono il motore più potente.

 

Il riconoscimento nella dimensione collettiva alimenta, innegabilmente, il perpetuarsi di modelli di pensiero fortemente statici, orientati alla conservazione e al riprodursi delle strutture e delle dinamiche in essere. Ogni oscillazione risulta pericolosa. Lo è. E lo è per la sopravvivenza della comunità e del modello stesso. Di qui il proliferare di regole rigide, di tradizioni monolitiche e indiscutibili, di forme di autorità e autoritarismo che sedimentano fra gli strati delle consuetudini fino a farsi diritto. E il passato, con tutto ciò che ne è espressione, diventa la bussola di ogni comportamento. Sotto queste pressioni l'individuo soffre. A volte si ribella. Si ribella durante l'umanesimo e il rinascimento, nell'espressione del pensiero scientifico che si manifesta durante il secolo successivo, si tende fino all'estremo in epoca romantica. L'individuo si ribella ma le regole che incorniciano il suo ambiente di vita rimangono pressoché immutate. E' come se una corrente carsica avesse attraversato quelle strutture sociali da sotto senza dare segni di sé per esplodere in modo incontrollato negli anni sessanta e settanta del novecento.

E' allora, negli anni settanta, scrive Catherine Ternynck in "L'Uomo di Sabbia", che il "pensiero individualista e libertario disegna l'uomo come artefice di se stesso, [e ne fa un soggetto] guidato solo dalle proprie scelte e dai propri desideri. [Ebbene quell'uomo, portatore di conquiste importanti] come la fine dell'autoritarismo, il venir meno della distanza incolmabile fra le generazioni, l'affrancamento delle donne da un destino gregario", si scopre oggi fragile e come prigioniero delle sue stesse conquiste di civiltà. Un nuovo imperativo, sociale ed economico, all'autodeterminazione a tutti i costi si è sostituito alle regole del passato, sulle cui macerie l'individuo si ritrova oggi disorientato e incerto. Solo contro tutti, l'uomo moderno si sveglia in un territorio relazionale impoverito e come svuotato di ogni legame e di ogni responsabilità. Ne scaturisce una figura fragile, friabile, come di sabbia, inconsistente e perennemente in cerca di una ricostituzione dei propri orizzonti sociali.