Territori e comunità marginali. Uscire dalla crisi investendo in culture innovative.

La complessità del mondo tende ad aumentare ogni giorno di più. Con la complessità cresce la sensazione di non riuscire nell’intento di dominare i fenomeni, di non comprendere il sistema delle connessioni che sono all’origine delle dinamiche economiche, sociali e politiche del mondo moderno. L’aumento di entropia determina da un lato una crescita degli stimoli, della cultura e delle esigenze dei cittadini e, dall’altro, un senso di smarrimento e quasi di rassegnazione da parte dei governi locali, per l’assoluta insufficienza delle risorse a comprendere, padroneggiare e indirizzare positivamente le infinite sfaccettature della realtà. La misura dello smarrimento aumenta man mano che diminuiscono le dimensioni delle comunità. Più si è piccoli, isolati, lontani dai grandi centri e “scaraventati alla periferia del mondo” più si percepisce il proprio senso di inadeguatezza. E’ il quadro desolante entro cui si collocano una miriade di piccole e medie comunità italiane impegnate in una strenua lotta per la sopravvivenza. 

Come usciranno dunque gli enti territoriali da questa fase di impasse? Non certo arrancando in una triviale gestione del giorno dopo giorno; non giustificando l’abnorme sproporzione fra le esigenze in campo e i risultati raggiunti appellandosi costantemente ad una endemica e irresolubile carenza di risorse economiche ma, se ne saranno capaci, adottando schemi di pensiero e modalità operative radicalmente rinnovate rispetto al passato. All’incremento della complessità si può rispondere solo con la capacità di ridisegnare il futuro del proprio territorio attivando processi di pianificazione strategica in grado di coinvolgere i diversi attori in una logica di governance e sussidiarietà orizzontale. Tutto ciò con l’obiettivo di sfruttare al massimo le risorse, necessariamente limitate, di questi territori così come di ridurre al minimo il loro livello di isolamento.

E’ del tutto evidente, tuttavia, che la capacità di disegnare e di perseguire un orizzonte strategico chiaro non può prescindere dal possesso di una cultura fortemente orientata all’obiettivo o meglio capace di operare quella sintesi, auspicata da anni ma spesso disattesa, fra il tradizionale approccio giuridico alla gestione della cosa pubblica e quello più propriamente manageriale. Attenzione! Non si sta qui sostenendo la necessità di smantellare l’impianto fondativo del pensiero pubblico che deve necessariamente restare ancorato ai valori di imparzialità e garanzia che lo hanno condotto a maturità; si vuole semplicemente porre l’attenzione del lettore sull’idea di un governo del territorio pienamente consapevole del fatto che garanzie e trasparenza non possono più essere gli unici valori cui ispirare la propria condotta. Chiarezza di pensiero ed efficacia nel perseguimento degli obiettivi diventano invece variabili chiave in una strategia di crescita che punta all’integrazione compiuta fra  filosofia del “Diritto” e filosofia della “Scienza”.  

Una spinta in questa senso è in atto da molti anni anche nel sistema delle norme che regolano la pubblica amministrazione. Si pensi in questo senso alla legge 142/90, al decreto legislativo 267/2000 e agli ulteriori interventi attualmente in corso di approvazione al parlamento, con cui il legislatore dà un segnale eloquente sulla volontà di imprimere una svolta di tipo fortemente “pianificatorio” alla gestione dall’amministrazione pubblica. 

Eppure, nonostante questa spinta, il governo di molte comunità locali appare inchiodato, a volte per la mancanza di una chiara prospettiva di tipo strategico, altre volte per la netta difficoltà di tradurre ogni parvenza di strategia in azione concreta. Proviamo dunque a coglierne le motivazioni. 

Nel primo caso le responsabilità afferiscono completamente al livello della politica. E’ abbastanza raro trovare all’interno di un programma elettorale o nelle linee programmatiche di inizio mandato un disegno chiaro e univoco sugli assets fondamentali che riguardano il sistema dell’economia locale, sulla sua interazione con i sub-sistemi e con le economie contigue, sul ruolo dei soggetti operanti a vario titolo nel territorio così come su un modello di convivenza che possa armonicamente collocarvisi. E’ invece più frequente assistere alla redazione di documenti che scadono in una pedissequa elencazione degli adempimenti e delle opere da mettere in atto nel corso del mandato; una sorta di “mansionario” che molto raramente si rivela almeno funzionale al perseguimento di un disegno organico. Dunque la politica “in primis” deve raccogliere la sfida di una innovazione radicale, improntata alla capacità di leggere e interpretare i fenomeni per trarne una visione strategica vera. 

Sempre più, nel mondo della complessità, risulta impossibile elaborare strategie convincenti senza il ricorso sistematico ai processi di democrazia partecipativa. La complessità nasce dall’estrema mutevolezza delle relazioni economiche e sociali, sempre più turbolente, che necessitano di una capacità di analisi, di sintesi e di mediazione ogni giorno più sottili. A tutto ciò si aggiunga la crisi crescente delle tradizionali strutture erogative: la continua riduzione dei trasferimenti statali si innesta spesso su una  contrazione delle fonti endogene di finanziamento. Alle conseguenti rigidità si risponde solo con una efficace politica di condivisione delle risposte. Occorre raccordare e convogliare tutte le energie migliori presenti sui territori verso il perseguimento di un sistema di obiettivi che tutti riconoscano come effettivamente strategici. Questa necessità, ormai abbondantemente percepita su scala planetaria, ha determinato la nascita di numerosi strumenti che trovano applicazione, anche in Italia, in una quantità sempre crescente di enti territoriali. 

Si tratta di ribaltare il concetto radicato secondo cui l’esercizio della democrazia si riduce alla scelta di rappresentanti cui demandare le scelte strategiche per un lasso di tempo più o meno lungo. E’ necessario che la politica sappia rimettersi in discussione per trarre alimento dall’idea di una continua “validazione” degli orizzonti strategici alla luce delle dinamiche economico sociali dei territori così come  dei cambiamenti continui che costituiscono la cifra distintiva del mondo moderno. 

Nel secondo caso le responsabilità possono invece allocarsi nei livelli organizzati delle istituzioni; in una struttura di pensiero che, come sottolineato, anche in presenza di un chiaro orizzonte strategico da perseguire si rivela incapace di tradurre la strategia in azione. Il riferimento è alla mancanza, spesso totale, di una cultura gestionale improntata al perseguimento del risultato. 

I due casi citati, sia chiaro, non sono così nettamente scissi ma sono spesso entrambi presenti a generare effetti nefasti  nella gestione del territorio. Diciamo pure che stiamo attraversando una fase in cui, per ragioni diverse, né dalla politica locale né dalla burocrazia viene la necessaria “pulsione” al cambiamento. E’ auspicabile quindi che si agisca con una pressione normativa più stringente che va tuttavia accompagnata da una azione sistematica e continuativa di sensibilizzazione alle tematiche della gestione per obiettivi. Occorre dunque la piena consapevolezza della necessità di un cospicuo investimento in “culture innovative”. In termini pratici si tratta di sviluppare poche azioni di forte incisività:

 

  • sostituire la tradizionale visione organizzativa per funzioni, spesso fonte di scarso orientamento al risultato con quella, molto più funzionale, per processi;
    intraprendere azioni formative volte a diffondere la conoscenza e l’uso di pratiche gestionali di eccellenza;
  • pianificare idonee politiche del personale di lungo periodo volte nel complesso ad introdurre negli organici degli enti territoriali professionalità più inclini ad una lettura “ingegneristica” delle dinamiche procedurali;
  • promuovere la creazione di figure che abbiano una visione strategica e d’insieme dell’ente e delle sue relazioni con il territorio;
  • condurre continue azioni di monitoraggio per verificare lo stato di attuazione delle strategie.
     

E’ del tutto evidente il valore cruciale della conoscenza e dunque dell’investimento in culture innovative. Ogni azione imposta dall’alto, senza l’apporto di un adeguato impegno per la diffusione di una radicata consapevolezza del ruolo dell’ente, sarebbe certamente antifunzionale dal punto di vista delle frizioni organizzative che si andrebbero a introdurre. Non solo: è ormai abbondantemente acclarato che le “buone gestioni” funzionano, producendo compiutamente i loro effetti, solo se agiscono sull’intero sistema; ovvero se ogni singolo ganglio dell’organizzazione conosce ed è pienamente consapevole del significato del proprio agire in relazione al perseguimento di un disegno strategico. L’azione di introdurre per pura coercizione l’uso di pratiche che non fossero profondamente comprese e condivise dai membri dell’organizzazione, sarebbe letta come una vessazione: l’ennesimo adempimento inutile e incomprensibile da aggiungere alla miriade abnorme di pratiche ridondanti che asfissiano i cittadini e l’amministrazione pubblica. 

L’innovazione si fa dunque acquisendo coscienza e conoscenza; attivando processi virtuosi che mettano le organizzazioni nella condizione di leggersi, interpretarsi e, soprattutto, di rigenerare sé stesse alla luce del sistema di relazioni che le agganciano al mondo circostante. Innovare significa agire sul materiale umano attraverso azioni coordinate di trasformazione del pensiero.

Ma in questo contesto qual è il ruolo della tecnologia? Anche qui occorre sgombrare il campo da una opinione abbastanza diffusa. Non è vero che i sistemi tecnologici costituiscono l’innovazione in sé; semmai possono essere strumentali ai processi nevralgici di una dimensione organizzativa orientata all’innovazione di processo. Troppo a lungo si è alimentata l’illusione, anche in ambienti lontani dalla gestione della cosa pubblica, che fare innovazione significasse acquisire tecnologia e sistemi tecnologici. Spesso si sono collocate in ruoli organizzativi chiave persone con una spiccata preparazione tecnologica senza valutare adeguatamente i risvolti negativi di un simile approccio. Il mondo dell’impresa, notoriamente più dinamico del settore pubblico anche per “banali” ragioni di sopravvivenza, sta oggi operando una decisa inversione di rotta. Cresce ogni giorno di più la consapevolezza che al vertice di posizioni organizzative chiave servono figure con una impostazione “bifronte”: caratterizzate da buone conoscenze di base dal punto di vista tecnologico ma con piena coscienza del ruolo strategico delle organizzazioni e con ottima conoscenza degli strumenti per la conduzione della strategia. Il rischio di una scarsa consapevolezza di questo aspetto è che tecnologia e innovazione siano interpretate come sinonimi e che ciò determini la tendenza ad affidare in outsourcing ogni processo orientato alla modernizzazione della “macchina”. Ma l’effetto più deleterio legato al materializzarsi di un simile rischio sarebbe la completa de-responsabilizzazione del governo locale rispetto alla propria vocazione strategica. Sarebbe il fallimento sul nascere di ogni spinta innovativa. 

Occorre quindi mantenere al centro l’uomo con tutte le sue prerogative; occorre riflettere in modo approfondito sulle azioni da intraprendere; occorre ridisegnare i processi e le organizzazioni, alla luce di queste nuove necessità, con la consapevolezza  che ne risulteranno snaturati i tradizionali rapporti di forza così come le modalità operative consolidate. E’ necessario delineare uno scenario nuovo che sappia guardare con fiducia agli strumenti per la gestione di eccellenza, come le norme ISO (9001 e 9004) il TQM e il CWQC, utilizzati ormai con profitto su scala planetaria in seno alle organizzazioni pubbliche e private. 

Sarà capace la politica, in tutte le sue infinite ramificazioni, di traghettarci fuori dalla concezione  autoreferenziata del governo locale cui assistiamo da anni?