La missione della sesta di Malher: salvare la bellezza

Ci sono uomini che attraversano la vita conservando un equilibrio incrollabile, che affrontano le prove più dure senza mostrare una increspatura. Il segreto di questo equilibrio nessuno lo conosce. Spesso sono persone normali che si reggono sui normali riferimenti quotidiani. E se c'è gente così che si mostra tanto salda, ti viene fatto di pensare che chi varca le porte del tempo consegnando in qualche modo il proprio nome alla storia, non dovrebbe vacillare di un millimetro. Cantanti, attori, musicisti, scienziati, schiere di politici e intellettuali, dovrebbero mostrarsi contornati di un'aura serafica al limite della santità. Ebbene... sappiamo tutti che non è così. Anzi, al contrario. Spesso i creativi sono anime inquiete, inseguite dal passato, tormentate dal presente e ossessionate dal futuro. Un po' come se la dimensione temporale della felicità fosse stata loro sottratta in origine. Ebbene Malher è certamente uno di questi uomini. "Cosa gli mancava?" direbbe uno "normale": era un musicista enorme, un grande compositore, uno dei direttori d'orchestra più osannati del suo tempo, era ricco, felicemente sposato, aveva figli... eppure Malher era un uomo tormentato. Era forse la più "felice", ma si vorrebbe dire "infelice", espressione del suo tempo. Nelle sue idee musicali filtrano gli affanni di una società, quella dell'impero austro-ungarico prossimo alla dissoluzione, che si mette in discussione, che capta gli scricchiolii di un mondo che si scopre incapace di guidare la storia verso una soluzione positiva, che sente imminente la deriva della civiltà per l'infiltrarsi, nelle sue pieghe, di una irrazionalità tragica, ingovernabile, cieca. Quelli che accompagnano la parabola artistica del compositore boemo sono gli anni che precedono l'avvento del primo conflitto mondiale e l'ascesa di Hitler. Malher muore nel 1911 quindi non vive direttamente questi flagelli, ma ne assorbe i segnali premonitori e li impasta in una sensibilità personale naturalmente orientata al pessimismo e alla malinconia. Già nel 1899 compone Revelge (Sveglia), un lied da lui stesso considerato come uno dei più importanti della sua produzione. Revelge narra, secondo le parole dello stesso autore, "di un tamburino alla testa dell'esercito che passa davanti all'abitazione dell'amata prima di morire sul campo di battaglia. Supplica allora i suoi compagni di non abbandonarlo così, ferito a morte, ma nessuno di loro può sentirlo. Allora, per non perdersi, si rialza e ricomincia a suonare" finché all'alba, morto fra i morti, si sfascia in ossami sparsi. Il racconto si veste di una musica dura, crudele, senza mediazioni, quasi una marcia implacabile della storia, e dell'uomo nella storia, verso il proprio destino.

 

Il lied Revelge

 


La sesta sinfonia vide la luce nel 1906 dopo circa tre anni di "gestazione". Il 27 maggio venne eseguita per la prima volta ad Essen, in Germania, sotto la direzione dello stesso Malher. Alla prova generale era presente Richard Strauss il quale, nei suoi rilievi, fu tutt'altro che morbido. Il celebre conpositore riferì che il lavoro era "troppo", da tutti i punti di vista, ma soprattutto disse che era esagerato sul piano coloristico: la sinfonia era, secondo il suo punto di vista, decisamente sovrastrumentata. Pare che il rilievo abbia indispettito Malher fino alle lacrime, probabilmente perché Strauss non colse l'intento volutamente "spettacolare" dell'autore. Attenzione! "Spettacolare" nel senso emotivo del termine: l'intenzione dell'autore era di mettere a nudo, senza mediazione, la rovinosa caduta dell'eroe uomo sotto i colpi implacabili del destino. Per farlo, ebbe bisogno di tendere la struttura formale e di ampliare la tavolozza coloristica fino all'estremo. Strauss aveva visto bene in fondo, ma finì per identificare nei precisi intendimenti dell'autore, una non meglio precisata imperizia compositiva.

Il primo tempo ricorda molto da vicino Revelge. Stavolta però siamo dentro a un lavoro sinfonico: la forma è più studiata, la costruzione ampia e solidamente incardinata nel concetto di sonata classica. Si può dire che fra i lavori sinfonici di Malher questo primo tempo sembra essere il più aderente alla tradizione. Quello che colpisce e che quasi prende allo stomaco è il gigantisamo strumentale del primo tema: ancora una marcia, legnosa, implacabile, quasi meccanica nel suo incedere sinistro verso la "fine". Emergono, dalla trama sinfonica, sprazzi di sereno che subito piegano al negativo nelle virate decise dal tono maggiore a quello minore. Poi... ecco apparire il secondo tema: lirico, cantabile, sempre orientato all'alto ma sempre incupito dalla presenza delle percussioni che lo interrompono a tratti nel loro incedere minaccioso.

Il secondo tempo, lo scherzo, si apre nuovamente all'insegna delll'idea di marcia. Stavolta però il clima espressivo si piega verso il sarcasmo. Ne sono tratti caratteristici il ritmo zoppicande, conferito alla marcia dal suo innaturale incardinamento nel ritmo  di 3/8, quasi un esercito zoppo che si avvii con fare grottesco verso la propria distruzione, e il trillo, che ricorre di continuo nel disegno melodico come ad increspare il timido affacciarsi di brevi spezzoni di valzer.

Segue il celebre andante. Qui l'ascoltatore viene introdotto in un mondo apparentemente rasserenato. Si fanno largo i paessaggi alpestri tanto cari a Malher. Addirittura si affacciano, in lontananza, i suoni martellati dei campanacci. Gli archi disegnano un tema intensamente lirico che tuttavia si increspa immediatamente per la presenza dell'alterazione discendente del secondo grado, tipicamente malheriana, e dal tratto decisamente lugubre. Man mano che si procede verso la chiusura i violini liberano il loro canto, il tessuto orchestrale si inspessisce. Il clima si fa triste e inconsolabile e, al tempo stesso, dolcissimo e potentemente lirico. Emerge un pathos fra i più intensi che il patrimonio sinfonico occidentale abbia saputo regalarci in tutta la sua storia fino a che, l'emozione travolgente che ti prende, si placa in un pianissimo che spegne poco a poco ogni suono.

Dal silenzio in cui si rimane sospesi al termine dell'adagio emerge il potentissimo, colossale ultimo movimento. Ben trenta minuti di musica. Una corsa spietata verso la fine, verso il nulla. I temi ascoltati in tutto il lavoro riemergono a sprazzi, si ricombinano, si aprono ad una visione positiva, virano al pessimismo più nero. Una lezione di maestria compositiva fra le più alte. La complessità costruttiva rimanda alla lotta titanica dell'uomo contro il proprio destino, fino a che i presagi si fanno realtà agghiacciante nei tre successivi colpi di martello, metafora acustica dell'ascia che recide l'uomo nel suo legame con la storia e con la vita.

In una delle ultime revisioni Malher rimosse l'ultimo colpo di martello per evitare l'idea di una fine troppo perentoria. Questo gesto, spesso ignorato nelle varie esecuzioni del lavoro, assume un significato tutt'altro che trascurabile. In esso si legge la ferrea volontà dell'autore di evitare ad ogni costo la dissoluzione delle cose. E' questo, probabilmente, il significato più profondo della sesta. E' indubbio che il linguaggio di Malher deve molto alla tradizione wagneriana: con Wagner il grado di corrosione della concezione tonale si fa sensibile. L'incremento delle esigenze espressive, in termini di messa a nudo delle istanze più profonde dell'uomo, determina il progressivo sgretolamento dei legami sintattici fra i suoni. Questa tendenza alla disgregazione si spinge con Malher fino al suo confine più estremo: la forma si dilata in misura abnorme, gli accostamenti coloristici preludono con chiarezza ai livori dell'espressionismo nascente e la concezione armonica è ormai prossima agli stilemi della a-tonalità. La sesta sinfonia appare, secondo questa prospettiva, una delle opere più mature del compositore austriaco. Eppure ... in ogni angolo di questo gigantesco lavoro, ogni volta che il superamento del limite si approssima, si avverte come il bisogno di ritornare entro l'alveo delle sicurezze che la storia e la vita, alle volte, sanno regalare. Un bisogno disperato di bellezza sprigiona da ogni battuta come se la fine della civiltà occidentale, prefigurata nella decadenza dell'impero, potesse simbolicamente scongiurarsi nella sopravvivenza del bello. Il tema cantabile dell'andante, dopo una lotta furibonda con la materia sonora, si libera a forza dalle catene che lo trattengono scagliandosi verso un lirismo di immensa intensità.

 

Un frammento della sesta di Malher nella lettura di Abbado

 

Insomma in Malher la morte della bellezza non si compie, così come accade, ad esempio, in "Morte a Venezia" di Mann, che pure di Malher fu contemporaneo e che emblematicamente battezzò il protagonista del proprio romanzo Gustav, specificando che si trattava del "figlio di un direttore d'orchestra boemo". Curioso no? In Malher non si compie il salto verso i territori inesplorati e impervi a cui approderanno pochi anni dopo, percorrendo la stessa via, i pionieri dell'espressionismo musicale. Malher rimane prudentemente e faticosamente al di qua della linea di demarcazione fra l'estetica del bello e l'estetica del brutto. Si posiziona sul confine, gettando uno sguardo attonito sui paesaggi devastati che gli si profilano dinanzi agli occhi.